Partiamo dalla storia

Nel corso dei secoli e degli anni si sono sviluppati numerosi pregiudizi nei confronti delle persone con disabilità, spesso sostenuti anche dalle istituzioni.

Negli anni 80, in Italia ad esempio, la famiglia era relegata a gestire da sola la presa in carico della persona con disabilità per la quale venivano previste le cure mediche, senza considerare tutti gli altri ambiti di vita altrettanto rilevanti.

L’abilismo, seppur se ne parli diffusamente solo negli ultimi anni, c’è sempre stato e ne troviamo le prime espressioni documentate nella storia greca e romana

Racconti dall’antica Grecia

Plutarco ci racconta che non convenisse alla polis, alla città e alla persona stessa nata con qualche deformazione sopravvivere perché inutile a sé stessa e alla società. Anzi un peso di cui liberarsi, al punto tale che i bambini con disabilità o con problemi di salute venivano buttati giù dal monte Taigeto nell’antica Grecia. Già in questo emerge una prima idea pregiudizievole della persona disabile come sofferente, al punto che la sua vita non sia degna di essere vissuta.

L’olocausto

La vita di una persona con disabilità ha continuato ad essere considerata inutile con l’arrivo di Hitler. Il dittatore ha sviluppato un progetto di epurazione denominato Aktion T4, che portò alla morte di circa 200.000 persone.

Quali pregiudizi permangono?

Tra questi pregiudizi, quelli più profondamente radicati, riguardano l’ambito della sessualità e dell’affettività che si declinano in due direzioni diverse:

  • per le persone con disabilità fisica è presente il mito dell’asessualità: cioè sarebbero prive di desideri e bisogni sessuali e questo si traduce nella diffusa difficoltà o nell’impossibilità di vivere questa sfera di vita, perché non riconosciuta da un possibile partner, e perché negata dalla persona stessa;
  • per quanto riguarda invece le persone con disabilità cognitiva permane il mito dell’ipersessualità: esso dice che le persone con disabilità avrebbero una sessualità fuori controllo, da “dominare”, sedare e questo si traduce spesso in  comportamenti coercitivi nei loro confronti e nel rendere queste persone più facilmente prede perché tanto non vengono credute, sia per le difficoltà che possono avere nel raccontare queste esperienze, sia perché non essendo loro riconosciuta la possibilità di esperire in maniera sana questa dimensione, non si concepisce come possibile che possano essere vittime di forme di violenza sessuale.