Mi chiamo Eleanor Oliphant e sto bene, anzi: benissimo. Non bado agli altri. So che spesso mi fissano, sussurrano, girano la testa quando passo. Forse è perché io dico sempre quello che penso. Ma io sorrido, perché sto bene così. Ho quasi trent’anni e da nove lavoro nello stesso ufficio. In pausa pranzo faccio le parole crociate, la mia passione. Poi torno alla mia scrivania e mi prendo cura di Polly, la mia piantina: lei ha bisogno di me, e io non ho bisogno di nient’altro. Perché da sola sto bene. Solo il mercoledì mi inquieta, perché è il giorno in cui arriva la telefonata dalla prigione. Da mia madre. Dopo, quando chiudo la chiamata, mi accorgo di sfiorare la cicatrice che ho sul volto e ogni cosa mi sembra diversa. 

Ho trovato molto appassionante questa storia alla quale mi sono avvicinata per puro caso. Amo leggere ma al tempo stesso rifuggo dai libri tanto acclamati perché spesso ahimè, dietro una grande operazione di marketing, si trovano produzioni mediocri.

L’autrice, narrando la storia attraverso la voce della protagonista, o meglio i suoi pensieri, ci porta all’interno della sua mente cogliendo con delicatezza il mondo complesso e fragile che Eleanor custodisce dentro di sé. Eleanor crede di stare benissimo, ma nel leggere la sua visione del mondo ci rendiamo conto fin dall’inizio che nelle stanze della sua mente abitano esperienze di vita  traumatiche,  vicissitudini  cui si accenna appena e che l’hanno portata a narrare le sue giornate e a narrarsi in un modo che visto con gli occhi di chi non ha avuto traumi, o che comunque non ha la sensibilità di coglierne il dolore, sembra folle, bizzarro a tratti noioso e anche fastidioso.

Chi è Eleanor Oliphant?

Eleanor è particolare, non si conforma alla logica di chi ci vorrebbe tutti “normali” (ma poi cos’è la normalità?), tutti con la stessa visione del mondo e soprattutto tendenzialmente tutti omologati.

È fuori dalle righe, è routinaria, da una parte queste routine le servono, in modo maniacale, dall’altra la imprigionano. Durante la settimana lavora, è riuscita nonostante tutto (non si sa bene cosa) a trovare un lavoro. Svolge quanto deve e nella pausa pranzo passa il tempo in isolamento facendo le parole crociate. Le relazioni con gli altri sono strane e lei le rifugge, in fondo a che le servono? Nel fine settimana si ubriaca di vodka per poi il lunedì ricominciare daccapo, all’interno di un contesto lavorativo dove, le rare volte che si approccia con i colleghi, non riesce a non dire quello che pensa. Il mercoledì sera arriva poi quella drammatica rituale chiamata dal carcere da parte della madre, svelata solo alla fine della storia, da cui non riesce a sganciarsi.

Eleanor gestisce così la sua fredda emotività, bloccata, rigida, fino a che per puro caso (o forse no) entra nelle pieghe della sua anima congelata un collega che lei non capisce. Lei è interessata ad un cantante di cui è invaghita e con cui costruisce una storia immaginaria, la preparazione ad un incontro con una persona che non sa neanche della sua esistenza.

L’arrivo di Raymond

Raymond invece è un collega strano, un po’ ne è infastidita, ma pian piano lui riesce ad entrare tra le pieghe delle sue ferite. Riesce ad entrare attraverso le poche fessure che Eleanor credeva di aver chiuso ributtandola nel mondo, un mondo troppo duro e devastante, che le ha riservato soltanto dolore racchiuso nella cicatrice che le solca il volto, di cui scopriremo il significato solo alla fine della storia.

Grazie a lui riscopre che la vita riserva anche esperienze buone, che può essere amata, nonostante abbia avuto una madre che le ha negato l’amore.

Sarà proprio Raymond a capire che cosa c’è nascosto dietro questa cicatrice e dietro le “stranezze” di Eleanor e ad aiutarla ad uscire dai labirinti così contorti della sua mente. Raymond non la giudica, sospende il giudizio, con una sensibilità che appartiene a pochi dimostrandole che la vita può donarle qualcosa di buono.

L’autrice

Sull’autrice che dire? Straordinaria! Raramente si trovano una scrittrice o uno scrittore che riescano a descrivere i mondi interiori di personaggi che convivono con la “malattia mentale”, spesso la narrazione non riesce a rendere la ricchezza e la complessità della loro psiche; la Honeyman ci riesce con una maestria unica, una finezza rara da trovare.

Vi consiglio di leggerlo e se all’inizio vi potrà risultare un po’ ostico, sforzatevi di continuare perché scoprirete un mondo lontano dal vostro ma altrettanto profondo, che magari appartiene al vicino di scrivania, o al vicino di casa al quale il dono dell’accoglienza può fare solo bene, come lo farà a voi. Poi in fondo… Chi lo decide chi è “normale”? D’altronde… Eleanor Oliphant, sta benissimo!

Buona lettura